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17.06.07

secolo xix G8, ora la polizia si liberi dalle sue mele marce

Secolo XIX

Editoriale
LETTERE AL SECOLOXIX: Piazza Piccapietra,21 rubrica
“Lettere& 16121Genova.
Fax: 010.5709240
G8, ora la polizia si liberi dalle sue mele marce
MAUROBARBERIS
Ci sono genovesi che, dei giorni del G8, ricordano soprattutto
l';anarchia,
i saccheggi, i vandalismi dei black bloc, e che magari si chiedono perché
i giornali diano tanto rilievoalle ammissioni del vicequestore
Michelangelo Fournier sulla «macelleria messicana» compiuta alla scuola
Diaz: per non parlare delle rivelazioni, per certi versi ancora più
inquietanti, del dirigente della Polfer Salvatore Genova al SecoloXIX.
Perché, si staranno forse domandando costoro,i giornali e la magistratura
sono spesso sembrati attribuire maggiore importanza, in questi anni, alle
violenze della polizia che a quelle dei teppisti?Questa domanda ha almeno
tre risposte: una giornalistica, una giuridica e una politica. Dal punto
di vista giornalistico, com’è noto, non fa notizia il cane che morde
il
postino, ma il postino che morde il cane. Dunque, non fa notizia che dei
teppisti vengano individuati, processati e condannati, come è pure
successo in questi anni.Fa notizia, invece, che dei poliziotti, guidati
dai più alti gradi delle forze dell’ordine, siano entrati in una
scuola in
cui dormivano novantatré ospiti del Comune di Genova e li abbiano
massacrati di botte,mandandone sessantatré in ospedale e tutti gli altri
in galera, cercando poi di giustificarsi introducendo nella scuola due
bottiglie molotov. Dal punto di vista giuridico, ancora, in qualsiasi
democrazia liberale il monopolio della forza, riservato allo Stato, è
circondato di garanzie per i cittadini: già la Magna Charta, nel Duecento,
affermava che nessun uomo libero può essere arrestato e detenuto
arbitrariamente. Orbene, nei giorni del G8, e sotto gli occhi del mondo,la
nostra polizia ha gestito l’ordine in base alla sola regola
“deboli con i
forti, forti con i deboli”: da un lato ha lasciato fare ai teppisti
tutto
ciò che volevano, dall’altro ha pestato pacifisti e consumato vendette
come quelle della Diaz e di Bolzaneto. Come stupirsi se, quanto a
legalità, nel mondo si assimila ormai l’Italia alla Turchia? Dal punto
di
vista politico, infine, tutelare l’ordine pubblico è il primo compito
del
governo: se le forzedell’ordine, oltre a non riuscire a garantire la
sicurezza, si rendono protagoniste di gravi violazioni della legalità,
allora è il governo che deve risponderne dinanzi al Parlamento.Se un
decimodi quel che è accaduto a Genova nel 2001 fosse accaduto
nell’Inghilterra di Blair o nella Francia di Sarkozy, l’indomani
il
ministro dell’Interno, e forse l’intero esecutivo, si sarebbero
presentati
in Parlamento con la cenere in testa e i ceci sotto le ginocchia.
Sarebbero volati stracci e saltate teste. Soprattutto sarebbero scattati
provvedimenti disciplinari che da noi si aspettano ancora. La
responsabilità politica di quanto è avvenuto in quei giorni, certo, spetta
al governo di allora, che iniziò in questo modo sgangherato un quinquennio
finito anche peggio.Ma la responsabilità di quanto avviene oggi spetta al
governo in carica: a una maggioranza che aveva nel proprio chilometrico
programma anche una Commissione d’inchiesta sui fatti del G8, e che
invece
ha saputo soltanto approvare, con la decisiva complicità
dell’opposizione,
un provvedimento di indulto che eviterà comunque la galera a tutti,
guardie e ladri, sempre ammesso che i processi contro gli uni e gli altri
finiscano prima che scatti la prescrizione. A Genova, d’altra parte,
non
ci sono solo i cittadini che, del G8, ricordano esclusivamente le violenze
dei black bloc. Ci sono anche gli abitanti diAlbaro svegliati nel cuore
della notte dalle urla dei ragazzi martirizzati della Diaz.Ci sono anche
coloro che hanno chiesto inutilmente aiuto alla polizia contro i teppisti,
e poi magari si sono ritrovati, loro, a soccorrere pacifisti manganellati
in un portone.Ci sono tutti coloro che, qualche tempo dopo, hanno rieletto
con una maggioranza del sessanta per cento il sindaco Giuseppe Pericu, che
in quei giorni, ha saputo dare voce all’indignazione di tutta la
città. E
questi genovesi si aspettano alcune cose, che si possono fare subito. Ad
esempio, si aspettano che i sindacati di polizia, invece di prendersela
con chi ha avuto il coraggio di rompere il muro dell’omertà, comincino
a
prendersela con quanti tacciono da sei anni.Ancora, si aspettano che le
promozioni regalate a tutti i responsabili di quei giorni,salvo a quelli
che hanno parlato, siano immediatamente revocate. Infine, si aspettano che
siano le stesse forze dell’ordine a fare pulizia nei propri ranghi,
senza
aspettare i provvedimenti della magistratura: liberandosi di tutti coloro
che, in quei giorni, hanno disonorato la loro divisa.


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Il poliziotto:«DeGennaro sapeva tutto sulle torture»

GENOVA. Sei uomini, addestrati a Napoli contro la camorra, divennero i
“vendicatori” che torturarono i br. «I vertici della polizia
sapevano»,
ribadisce SalvatoreGenova,
il poliziotto che liberò ilgenerale Dozier.

GENOVA. Era una struttura “parallela”, consolidata e attiva su
due
livelli: gli operativi, pochi e scelti in base a precedenti esperienze
professionali; i capi, altissimi funzionari che non si sono mai sporcati
le mani e però sapevano, sapevanotutto. “I cinque dell’Ave
Maria”, i
torturatori di cui Salvatore Genova l’investigatore che liberò il
generale
James Lee Dozier rapito dalleBrigate Rosse ha rivelato l’esistenza
ieri
sulle pagine del Secolo XIX, erano un gruppo che rappresentava, di fatto,
parte integrante ed essenziale in tutte le più delicate indagini sul
terrorismo all’iniziodegli anni ’80. Soprattutto il ministero
dell’Interno
aveva ricevuto tre anni fa una dettagliata segnalazione dallo stesso
Genova,nella quale si chiedeva di fare finalmente luce. Un documento
«riservato» e pesantissimo, firmato da un investigatore (oggi è
dirigentedellaPolfer ligure,ndr) che ha visto dall’interno le
violenze.
Nessuno ha mai risposto. «Attenzione insiste il superpoliziotto, che
vorrebbe fosse riaperto il processo che si occupò delle sevizie ai
brigatisti arrestati per il rapimento Dozier a non sottovalutare la
presenza di organismi occulti, ristretti e potenti in seno alla polizia di
Stato anche oggi». E oltre al parallelismo con l’irruzione alla scuola
Diaz, ci sono i pestaggi avvenuti nella caserma di Bolzaneto a corroborare
le perplessità: gli atti giudiziari hanno dimostrato più volte che i
soprusi sui dimostranti sono stati opera di drappelli molto ristretti e
“autonomi”. «Ecco ribadisce Genova il giorno dopo un terremoto
che
potrebbe registrare nuovi colpi di scena è necessario che si estirpi una
volta per tutte la malapianta dei piccoli gruppi di potere, capaci di
avallare sistemi inaccettabili». Nella stessa settimana in cui uno dei
funzionari più coinvolti nel G8, Michelangelo Fournier, svela
l’accanimento “scientifico” avvenuto sui no global nelle
ore successive al
vertice, un altro poliziotto spiega per filo e per segno come la tortura
era gestita dagli apparati dello Stato. “I cinque
dell’AveMaria”, secondo
le indiscrezioni raccolte dal nostro giornale, erano una squadra composta
da non più di sei uomini,individuati per l’abitudine ad esercitare
pressione violenta su delinquenti comuni. «Dato che i risultati erano
considerati efficaci ammette Genova decisero di esportare quel metodo alle
inchieste antiterrorismo ». Il “laboratorio”, aggiunge, era
statoNapoli,inparticolare la squadra mobile della città campana costretta
a combattere quotidianamente una vera e propria guerra con la criminalità
organizzata. Tant’è vero che la guida dei “Cinque”sarebbe
stato proprio un
ex funzionario della Mobile partenopea.A quale livello era gestita
l’attività?Chi sapeva della loro esistenza e come simuovevano? Genova
non
si ferma: «I vertici dell’Ucigos ricevevano informazioni e
aggiornamenti
diretti, il ministero pure». Il raggio d’azione era in qualche modo
illimitato: di certo, la squadretta era di stanza a Verona nei giorni che
precedettero la liberazione di Dozier «e per le loro mani passò gran parte
dei fiancheggiatori che contribuì alla cattura dei terroristi. Ma in altre
occasioni avevano operato a Roma o nel meridione.E ricevevano pressioni
costanti, utilizzando sostanzialmente due tre sistemi: simulavano la
fucilazione dei detenuti dopo averli accompagnati in luoghi isolati,
oppure somministravano abbondanti dosi di acqua e sale». Un po’
diversi i
fatti specifici di Padova, dove avvennero materialmente i pestaggi sui
sequestratori di Dozier. Lì entrarono,oltre ai “Cinquedell’Ave
Maria” i
“vendicatori” (o giustizieri) della notte. «Il responsabile del
Reparto
mobile (di stanzanella caserma delle torture, ndr) sapeva,ma lasciava
campo libero a un capitano, che a sua volta gestiva cinque poliziotti di
grado inferiore con i quali alla sera si chiudeva nelle stanze dei
prigionieri. Lo stesso ufficiale è stato poi protetto, inserito nei
servizi segreti e sempre tutelato dall’Amministrazione». Tutte le
informazioni, clamorose per il semplice fatto che provengono
dall’interno
della polizia e non da un gruppo antagonista, potevano essere divulgate a
soprattutto approfondite tempo fa. Il documento di cui è entrato in
possesso il nostro giornale indirizzato testualmente «al Ministero
dell’Interno, Dipartimento della pubblica sicurezza» risale al 14
luglio
2004 e contempla un passaggio molto eloquente, accompagnato alla richiesta
di un’indagine amministrativa. «Già la sentenza di primo grado
spiegava
Genova del vecchio processo di Padova aveva escluso responsabilità e
connessioni dello scrivente, allora semplice commissario della Digos
incaricato di indagini per la mancanza di strutture operative incardinate
presso l’Ucigos, con la cosiddetta “squadretta
torturatori” denominata “I
cinque dell’Ave Maria”, considerata da quella magistratura di
livello
ministeriale». Roma sapeva, che prima o dopo queste cose sarebbero
diventate pubbliche. MATTEOINDICE
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«Violenze al G8 come negli anni del terrorismo»
la testimonianza
Parla Francesco Forleo, fondatore del Siulp ed ex questore di Milano:
«Ricordo soprusi che sicuramente avvennero»
17/06/2007
GENOVA. «Certo. I fatti del G8 hanno rappresentato un brutto passo
indietro. Una regressione al clima degli anni del terrorismo. A quegli
episodi oscuri che fummo noi, primi sindacalisti di polizia, a denunciare».
Francesco Forleo, fondatore del sindacato Siulp, ex questore di Milano,
due volte parlamentare del Pci, non si tira indietro, se gli si chiede di
commentare le denunce di Salvatore Genova.
Ricorda quel clima. Ricorda «alcuni soprusi che sicuramente avvennero». E
ricorda le prime battaglie dall'interno della polizia, nel nome di uno
slogan: la battaglia per la legalità di combatte con la legalità. «Un
esempio? Ricordo una perquisizione alla Casa dello Studente di Genova,
alla fine degli anni Settanta. Centinaia di ragazzi rimasero, per ore,
fino alla mattina, nudi, in mutande. Distribuimmo un volantino in cui
denunciammo: non è giusto questo accanimento, questo modo di procedere non
è corretto, non è rispettoso delle persone».
Aggiunge: «Pensavamo di incorrere nelle ire dei tanti poliziotti impegnati
contro il terrorismo. Invece ci capirono. E qualche giorno dopo, io e il
collega Francesco Minerva, andammo nelle case di via Asiago, che erano il
quartier generale della sinistra extraparlamentare. E uscimmo da lì con le
nostre gambe».
Strano destino, quello di Forleo. Raggiunto da un mandato di cattura nel
1998, quand'era il capo della polizia milanese, accusato di omicidio
volontario per una vicenda di tre anni prima, a Brindisi: la morte di un
contrabbandiere durante un insegumento. La vicenda non si è ancora
conclusa, è in appello. Così, quando gli si chiede cosa fa oggi, Forleo
risponde con amarezza: «L'imputato da nove anni».
Giunse, quell'arresto, proprio quando il nome di Forleo era finito nel
nòvero dei papabili per l'avvicendamendo di Fernando Masone al vertice
della polizia italiana. Si sa come finì: spiccò il volo Gianni De Gennaro,
nominato poi il primo giugno 2000. E questa strana successione di eventi
può, per suggestione, ricordare la battaglia che si sta giocando oggi per
la sucessione dello stesso De Gennaro.
In realtà oggi Forleo è impegnato in prima linea nell'emergenza rifiuti in
Campania. La tempistica di quell'arresto e la lunghezza del processo hanno
bloccato i suoi sogni di progressione. E anche questo, lo si può annotare,
è stato molto strano.
Non ha perso, Forleo, la sua incrollabile fiducia in una polizia "umana",
davvero al servizio dei cittadini. Ma non crede che al G8 ci sia stata una
manovra occulta di apparati "cattivi" e ingovernabili. Né che alla Diaz
siano tornate in azione le squadre della tortura. «Il G8 - racconta -
rappresenta ancora una ferita aperta. Un ritorno indietro nella marcia di
democratizzazione. Ma io credo che quel che è accaduto sia stato soltanto
il frutto di una enorme débâcle organizzativa. Troppa gente a comandare.
Il questore Francesco Colucci aveva troppa gente intorno che lo tirava per
la giacchetta, quando addirittura non gli si è sovrapposta. In queste
circostanze è ovvio che sia avvenuto il caos. In un'organizzazione
gerarchica, dev'essere chiara la catena di comando. E devono essere
evidenti le eventuali responsabilità».
Perché, allora, è accaduto tutto questo nel luglio 2001? «Continuo a non
credere ad una precisa strategia. E' vero però che le forze dell'ordine
sono partite per Genova come se andassero al fronte. Sembravano soldati
che si muovevano per la guerra. Pressati, schiacciati da comunicazioni
assolutamente allarmanti». Insiste Forleo: «E' vero che era stato
distribuito il libriccino del ministero, che raccomandava moderazione e
serenità. Ma il clima reale era completamente diverso».
Un clima di mobilitazione...
«Certo. I reparti partivano già aggressivi. Non si può però tacere che
qualche parte di resposabilità l'abbia avuta anche il movimento no global,
o, almeno, certe sue parti. Quelle continue dichiarazioni nei giorni
precedenti hanno esasperato gli animi.
La "dichiarazione di guerra", i vari "attaccheremo", "sfonderemo".
Insomma, c'è stato uno spaventoso conrtocircuito in cui, io credo, la
principale responsabilità delle forze dell'ordine sia stata quella di non
aver saputo "comunicare" al loro interno». E oggi? Se la sente di
sostenere questo strano parallelismo tra l'epoca brigatista e il G8? «No,
non me la sento. Anche se il G8 ha segnato un bruttissimo episodio di
regressione, non è paragonabile ai tempi della"vecchia" polizia. E dopo il
luglio di Genova, certe cose non si sono più ripetute».
Marco Menduni

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