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11.02.09

giornale ecco il G8 visto dai 'cattivi' di Stefano Zurlo

L'altra faccia di Genova:
ecco il G8 visto dai 'cattivi' di Stefano Zurlo
Due libri rievocano gli scontri del 2001 per raccontare le paure, gli
ideali, il codice morale e gli errori del reparto anti black bloc

Il celerino gonfia i muscoli e spazza la strada col manganello. Nelle
orecchie ha una sola colonna sonora, le grida di chi da quarant'anni lo
saluta, ultra' o tuta bianca fa poca differenza, sempre alla stessa
maniera: «Polizia assassina», «Polizia bastarda» e via elencando con il
repertorio di spagnolismi e complimenti che la piazza ha composto dal ’68
in poi. Il celerino e' frustrato e colmo di rabbia, quei versi sgangherati
gli danno la carica. Pero' il celerino non e' un servo ottuso, una volta si
sarebbe detto uno sgherro, dello Stato. Il celerino non e' lo stereotipo di
tanti cortei. Sorpresa: i poliziotti del reparto mobile non sono tanti
piccoli Terminator; no, hanno un cuore e nel fondo del loro sguardo trovi
la lealta' .

Giacomo Gensini, sceneggiatore, insegue Dario e ci porta sulla pira di
Genova, per gli scontri fatali del G8: Genova sembrava d'oro e d'argento
(Mondadori, pag. 199, euro 16). Dario ha trent’anni e per mesi lo hanno
addestrato in vista dell’apocalisse attesa nel capoluogo ligure per il G8.
Eppure il primo incontro col nemico, i famigerati black bloc, none'¨ un
assalto all’arma bianca. Gli occhi di Dario scrutano «cento,
centocinquanta» persone: «Sono vestiti di nero, il viso coperto, molti
portano il casco. Alcuni di quelli davanti hanno grandi bandiere e tamburi
che suonano una specie di marcia militare». Dario e i suoi compagni
osservano: «Non che sappia chi sono, ma percepisco che saranno il nostro
avversario. Che loro in qualche modo siamo noi. E il nostro è un saluto a
un avversario che abbiamo riconosciuto».

Poi la guerra, feroce, può cominciare. I celerini sono duri,
professionali, implacabili, ma non smarriscono il tratto umano. Ad un
certo punto davanti a Dario spunta un gigante. Canta la Marsigliese e lo
tramortisce con una bastonata violentissima che si abbatte sul piccolo
scudo. I suoi compagni lo soccorrono, bloccano quel colosso, lo colpiscono
senza pieta' . Ma con un certo rispetto per il suo coraggio.

Genova in quei frangenti e' un falò. Incendi, devastazioni, saccheggi. Le
lacrime della gente. E i colpi di pistola che si portano via Carlo
Giuliani. I carabinieri assediati hanno reagito e hanno premuto il
grilletto: ora un ragazzo, quello che purtroppo tutti ricordiamo riverso
nel suo sangue con l'estintore ancora in mano, non c'e' piu'. La violenza
degenera: le invettive, puntuali come un rigore della Juve al novantesimo,
si moltiplicano. E i celerini soffrono. Perche', come i cavalieri
medioevali, hanno un loro codice: mai sparare, mai, mai, nemmeno quando ne
hai davanti duecento. L’ordine pubblico non è una bieca manifestazione di
potenza, è un’arte, una missione per il celerino, e proprio per questo in
vista di Genova è stato creato quel reparto d’élite. No, Dario e gli altri
mai avrebbero sparato a Giuliani. Ma ormai è tardi. Troppo tardi. Il
disastro è avvenuto, si tratta di contenere la furia.

Poi, finalmente, la trappola può scattare. I black bloc, braccati per ore
fra i caruggi e i lacrimogeni, finiscono all’angolo. Sono bloccati, come
topi. È arrivato il momento di attaccarli e di dare loro una lezione
esemplare. Quella che si meritano per quello che hanno combinato. Ma il
comandante del Settimo, Francois, non ha cancellato il cuore. Le tute nere
sono ammassate nei pressi di una scogliera: scapperebbero, si butterebbero
giù, sarebbe una strage. «Il Settimo non carica, non ci sono le condizioni
minime di sicurezza» dice Francois, il comandante dagli occhi
fiammeggianti. «Settimo - è l’ordine inaspettato - il primo che si muove
può considerarsi un uomo morto, lo uccido io con le mie mani».

La guerra come tutte le guerre ha le sue astuzie ma rispetta le regole.
Francois non può e non vuole violarle. Il compito del Settimo è difendere
l’ordine pubblico: non c’è spazio dopo la morte di Giuliani per variazioni
temerarie e rischiosissime.

Non è ancora la fine. Qualcosa di molto brutto accade: la catena
gerarchica viene sostituita, gli agenti perdono i punti di riferimento,
Francois scompare, un volto anonimo al suo posto. È notte, è arrivata una
segnalazione, bisogna correre in una scuola: Dario e gli altri fanno
irruzione alla Diaz e scrivono una pagina sventurata e oscena. Le botte,
gratuite e inutili, i volti tumefatti, la violenza cieca, la repressine
spietata e al fondo inutile. È la fine di quell’ideale, o forse no.

A volte i celerini danno il peggio di sé. A Genova è successo. I
poliziotti sono stati mal indirizzati. E usati.

Carlo Bonini, giornalista e scrittore, nel suo Acab (Einaudi, pag. 191,
euro 16,50) riparte proprio dalla «macelleria messicana» della Diaz. I
referti sono agghiaccianti: «Uomo, diciannove anni, italiano. Trauma
cranico». «Uomo, ventidue anni, italiano. Trauma cranico». «Uomo,
venticinque anni, tedesco. Trauma cranico».

La Genova di Bonini è tutta concentrata nel perimetro della scuola. E
nelle amare riflessioni del vicequestore Michelangelo Fournier, vero, col
suo nome e cognome, come tutti i protagonisti tratteggiati da Bonini.
Anche Fournier, come il Francois di Gensini, non voleva diventare complice
di un’operazione di stampo sudamericano. Ma il suo percorso è meno netto:
«Lui, la notte della Diaz aveva avuto l’ordine di ripulire una scuola dove
gli era stato detto si nascondesse il blocco nero. E a quella pulizia
aveva partecipato fino a quando non aveva realizzato quale menzogna
celasse».

Il potere voleva schiaffeggiare il popolo di Genova. E dall’altra parte
nessuno aveva provato a incanalare la ferocia, l’odio, la rabbia verso i
celerini. Quello era un fiume che veniva da lontano: si formava «ai
cancelli della curva di uno stadio», il principale campo di lavoro di un
celerino, «all’ingresso di una casa occupata, di fronte a un centro
sociale». Ed era cresciuto come una metastasi di giorno in giorno. Fino
all’esplosione di Genova.

Nelle stanze buie della Diaz, Fournier raggiunge un faticoso compromesso:
grida al VII di lasciare la scuola. Ma non si mette di traverso e non
cerca di bloccare quello scempio compiuto da chi indossa le anonime
pettorine «Polizia».

All cops are bastards: tutti i poliziotti sono bastardi, è il mantra di
quei ragazzi che da due generazioni giocano con la violenza sull’asfalto
delle nostre città e trasformano il pallone domenicale in un rito
barbarico. A Genova, alla Diaz, i celerini hanno smarrito il loro onore.
Non più la battaglia, ma la rappresaglia. E lo Stato fatto a pezzi. Ma
sempre a Genova hanno anche dimostrato di avere non solo i muscoli. Ma
anche il cervello e il cuore.

http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=327598&PRINT=S

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