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21.07.05

Liberazione: ora la priorita' e' punire i no global

a ora la priorità è punire i no global
Un tranquillo fotografo rischia più dei parà che lo arrestarono senza prove. Solo quattro poliziotti accusati per piazza Manin. E la pediatra manganellata aspetta il risarcimento dai giudici civili
ALESSANDRO MANTOVANI
Paolo Barbera ha 29 anni, vive in provincia di Milano e lavora come operatore per le tv, pubbliche e private. E' un ragazzo di sinistra che, per andare al G8 di Genova, era partito solo soletto, con lo zaino in spalla e l la macchina fotografica al collo. Quel 20 luglio di quattro anni fa, poco dopo l'omicidio di Carlo Giuliani, Paolo si trovò davanti i carabinieri paracadutisti del Tuscania che risalivano corso Gastaldi, travolgendo cose e persone con i loro mezzi da guerra. «Sono scappato in un cortile anche per disintossicarmi dai lacrimogeni - racconta - Dentro c'era già altra gente come me. Abbiamo aspettato cinque minuti e sono arrivati i carabinieri. Prima, da fuori, ci hanno fatto un gesto con le mani tipo: `Vi facciamo un culo così'. Ma io sono andato verso di loro con le mani alzate, per dimostrarmi inoffensivo. Quello invece mi ha preso le mani e mi ha messo le manette: `Sei in arresto, ti portiamo in galera'. Mentre ero ammanettato ho preso una manganellata e un pugno, poi mi hanno lasciato stare. Gli altri, quelli accovacciati, ne hanno prese un sacco». Gli hanno preso la macchina fotografica e hanno distrutto le foto. «Un carabiniere mi ha colpito col dorso della mano - prosegue Paolo - Diceva di essere arrabbiato perché gli avevano bruciato la camionetta. `L'hanno bruciata a tutti', ho risposto io, per dire che era un bene pubblico. E lui mi ha dato un altro pugno». Paolo racconta ancora: «Non ho più le mie foto ma di Genova mi rimane l'immagine di un giardino di fiori, di tutte le specie, forme e colori, perché era un luogo di scambio di idee e di opinioni». L'hanno portato in caserma e poi in carcere a Pavia, dove ha digiunato per protesta per quattro giorni. Alla fine il gip Vincenzo Papillo, per lui come per altri, ha deciso di non convalidare gli arresti perché non c'erano elementi a sostegno delle accuse di resistenza a pubblico ufficiale. E qualche mese dopo il giovane ha deciso di denunciare i carabinieri, con l'assistenza dell'avvocato Riccardo Passeggi.

Quattro anni dopo, nella babele dei processi penali e civili sui fatti del G8, la situazione è ancora capovolta. Paolo ha ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, i pm lo hanno insomma avvertito che intendono rinviarlo a giudizio per resistenza. Nulla di tutto questo è accaduto, invece, agli uomini del Tuscania che risalirono corso Gastaldi al comando del capitano oggi maggiore Guido Ruggeri, che picchiarono e arrestarono arbitrariamente quelle dieci persone. Le indagini su di loro sono rimaste ferme.

E' paradossale ma non casuale. Dal marzo scorso, infatti, una disposizione del procuratore capo di Genova Francesco Lalla assegna priorità assoluta alla conclusione delle indagini sui manifestanti. Uno dei due sostituti impegnati sul questo fronte, il pm Andrea Canciani, è stato sollevato dal lavoro ordinario, compresi alcuni processi di mafia. E in questi mesi la procura, dopo aver lavorato a pieno ritmo sui filmati, ha riaperto i fascicoli dei circa trecento arrestati di quei giorni. Una cinquantina di manifestanti italiani e stranieri, accusati di devastazione, attendono le richieste di rinvio a giudizio. Le posizioni al vaglio sono oltre un centinaio e le richieste di archiviazione saranno poche.

I procedimenti contro le forze dell'ordine per i fatti di piazza camminano assai più lentamente. Solo un mese fa il pm Francesco Albini Cardona ha inviato gli avvisi conclusivi a quattro agenti del reparto mobile di Bologna che parteciparono alle cariche di venerdì 20 luglio in piazza Manin, dove manifestavano la rete Lilliput e le aree pacifiste laiche e cattoliche che certo non rappresentavano un problema di ordine pubblico. Rimase ferita persino la parlamentare di Rifondazione Elettra Deiana.

Gli autori materiali delle violenze non sono riconoscibili perché erano a volto coperto. I quattro rispondono però dei verbali d'arresto falsi e calunniosi a carico di due manifestanti spagnoli, accusati di essersi lanciati all'assalto con spranghe inesistenti. C'era qualche testimone e il procedimento contro di loro è stato archiviato. Ma saranno archiviate anche le sessanta querele presentate da altrettanti manifestanti che non erano accusati di nulla ma hanno denunciato la polizia. E lo stesso vale per i vari episodi del giorno seguente, sabato 21 luglio, durante il grande corteo sul Lungomare. Sempre la stessa storia: caschi, fazzoletti e passamontagna impediscono i riconoscimenti, a volte i magistrati hanno ritenuto che le decisioni di ordine pubblico non siano penalmente perseguibili e altre volte ancora, semplicemente, non hanno avuto tempo. Perché nessuno ha mai sollevato dal lavoro ordinario i pm che indagano sulla polizia.

Arrivano notizie migliori, tutto sommato, dal tribunale civile, che può condannare il ministero dell'interno a risarcire i danni anche se i responsabili materiali rimangono ignoti. E' la strada intrapresa da due donne che furono picchiate proprio in piazza Manin. Una di loro è la dottoressa Marina Pellis Spaccini, una pediatra triestina di 55 anni che ogni anno va in missione in Africa con il Cuamm, un'organizzazione non governativa legata alla curia di Padova. Era in piazza Manin «con la rete Lilliput - racconta - e con la nostra storia di medici che lavorano nei paesi poveri. E' importante agire sul campo ma anche esporre le proprie idee, creare cultura». La presero a manganellate in testa, venne fotografata mentre soccorreva un ragazzo con il volto insanguinato e la foto, pubblicata in copertina da Diario, fece il giro del mondo. Ricorda tutto molto bene: «Nessuno mi aveva mai bastonata in vita mia». Un medico dovrà stabilire se la lesione è compatibile con il manganello d'ordinanza. La dottoressa, assistita dall'avvocato Alessandra Ballerini, ha chiesto centomila euro di risarcimento. «Ma non lo faccio certo per i soldi - dice - Quelli, se me li daranno, andranno via in solidarietà. Ma spero che una sentenza favorevole possa essere un piccolo contributo alla verità».
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Non siamo farina per fare ostie»
Con il console dei camalli Batini e il suo vice Amanzio la memoria corre tra il '60 e il G8
L'organizzazione «Noi avevamo per guide i partigiani che dicevano: ora vai, ora scappa nei carrugi. I no global erano 200 mila ma senza comando, di fronte a una forza repressiva tremenda»
LO. C.
GENOVA
Domani come ogni 20 luglio da quattro anni, una delegazione di lavoratori portuali si recherà in piazza Alimonda per salutare Haidi e Giuliano, i genitori di Carlo. «Porteremo un cuscinetto di fiori bianchi e rossi che sono i colori sociali della Compagnia», mi dice l'irriducibile console dei camalli genovesi, Paride Batini. Uno che la sua città la conosce bene, uno con una memoria lunga fino al 30 giugno del `60, quando la Genova dei ragazzi con le magliette a strisce insorse contro il governo Tambroni e dopo giorni di scontri nelle piazze e nei carrugi, riuscì a impedire che nel santuario dell'antifascismo si tenesse il congresso del Msi. «E' destino che ogni quarant'anni questa città debba esplodere», racconta Amanzio Pezzolo, viceconsole della Compagnia da poco in pensione. Con Paride e Amanzio abbiamo cercato di capire le similitudini e le differenze tra il `61 e il G8. Se chiedi a chiunque di una certa età un'opinione, un ricordo sui «fatti di Genova», ottieni in risposta sempre la stessa domanda: «Quali»? Su un punto Paride e Amanzio sono d'accordo. Più che un punto è una critica, affettuosa ma ferma come quella che può fare un padre a un figlio, una generazione a quella successiva: «Hai portato la gente a buscarle. Nel 2001 - dice Paride - è mancata l'organizzazione, o almeno quella che c'era era insufficiente a reggere il livello dello scontro. Dall'altra parte - perché io stavo e sto dalla parte dei ragazzi che contestavano il G8 - c'era un gigantesco accumulo di forza: Genova era stata blindata, imprigionata, spaccata dalle grate che chiudevano la zona rossa. Cavalli di frisia, migliaia di militari in assetto di guerra. I ragazzi dicono che la mentalità del movimento è diversa dalla nostra, che i giovani non sono incasellabili dentro i servizi d'ordine. D'accordo. Però, se vai allo scontro devi avere un'organizzazione adeguata, qualcuno che ti dica adesso vai avanti, ora colpisci, ora scappa e ritirati, adesso si riparte. Mi spiego?».

«Noi camalli non siamo teneri, non siamo farina da far ostie», sintetizza Amanzio, «e quando c'è da scendere in piazza non ci si pensa due volte. Però in testa abbiamo sempre un obiettivo: riportare tutti a casa sani e salvi. Prima del G8 ci eravamo trovati di fronte all'ennesima provocazione. Forza nuova voleva manifestare in città in occasione dell'anniversario del 30 giugno `61. Noi ci siamo visti, abbiamo fatto sapere a tutti che eravamo pronti a riprenderci la piazza. Poi, quando i 40-50 fascisti arrivati a Genova sono stati relegati in una pizzeria fuori mano, abbiamo cercato di contenere i giovani del movimento che giustamente volevano impedire anche quella provocazione di ripiego, ma dall'altra parte c'erano centinaia e centinaia di poliziotti. Che senso aveva andarsele a buscare, soprattutto quando il risultato più importante era stato raggiunto?».

Il `60, dice Amanzio, era una storia diversa. «Una storia nostra. Il G8 ci è piovuto sulla testa. Anche se in Compagnia avevamo intuito che sarebbe arrivata tanta gente da fuori e che dall'altra parte, governo e forze dell'ordine cercavano lo scontro e a questo scopo avevano allestito dei gran trappoloni». 30 giugno `60, i gipponi che facevano i caroselli, i ragazzi che assaltavano le camionette, fermavano i gipponi e poi via, giù per i carrugi e hai voglia a rincorrerli. I `rivoltosi' avevano il controllo della piazza. «Nel 2001, invece, cosa è stato fatto per difendere quei 200-300 mila inermi intrappolati da polizia, carabinieri, guardia di finanza e chi più ne ha più ne metta?».

Diversa l'origine - genovese la prima, «estranea» la seconda - e diversa la gestione della piazza. «Il 30 giugno è cominciato diversi giorni prima, con le riunioni quotidiane a piazza Banchi con tutti i ragazzi. Eravamo organizzati», dice Paride, «già ai primi cortei verso piazza De Ferrari e ai primi scontri all'altezza del Duomo. Nei giorni era cresciuta la maturazione del movimento: qui, in una città dove solo 15 anni prima erano stati uccisi dai fascisti tanti compagni, tanti partigiani, tanta gente comune, i fascisti non dovevano parlare. Noi ragazzi con le maglie a strisce e le braghe consumate - mica firmate come quelle di adesso - avevamo delle guide, dei punti di riferimento. Alle spalle avevamo l'organizzazione del Pci, dell'Anpi, della Cgil. Quando cominciarono gli scontri, i partigiani - quelli della montagna che tutti si rispettava - si misero i bracciali e presero il comando impedendo qualsiasi degenerazione, tenendo a bada le teste calde. Mi capisci? A me in un certo senso giravano i coglioni, però stavo alle regole. Alla fine della fiera ci fu un riconoscimento nei nostri confronti e, scampato il pericolo, impedito il congresso del Msi, fummo tutti tesserati all'Anpi».

«Genova è una città fiera, capace di far cadere i governi, è una città che ha memoria. Eppure, sarà perché il G8 ci è caduto addosso, è come se dopo 4 anni la memoria cominciasse a vacillare. C'è una parte che vive il ricordo di Carlo e di quei giorni in modo militante - è l'opinione di Amanzio - mentre un pezzo di città tende a rimuovere. Non c'è quel clima forte del 20 luglio del 2002, quando in maniera assolutamente spontanea e imprevista la città intera si riversò in piazza, un anno dopo. Genova è una città ferita, offesa dalla militarizzazione del G8, chi costretto ad andarsene per via delle grate e delle minacce inverosimili montate dai giornali, chi costretto a restarsene chiuso in casa. Ferita per gli scontri e le violenze ingiustificate della polizia. Ferita alla Diaz e a Bolzaneto. Così c'è chi cerca di pensare ad altro». Però Genova, aggiunge Amanzio, «aprì le porte ai ragazzi che scappavano e anche le pompe dell'acqua, per alleviare il caldo di quei giorni».

«Te la dico così: Genova si è vista catapultare addosso una carica enorme di violenza, di quei giorni ricorda la militarizzazione della città, i tombini saldati e le grate davanti alla porta di casa. Ricorda anche le stronzate di qualche ragazzotto che spaccava tutto. Vedi, si dice che i genovesi sono spilorci, non è vero ma certo non ci piace veder bruciare le cose a cui teniamo. Metti che io ho una macchina e ci sto ancora pagando le rate. Se un blac bloc me la brucia m'incazzo, è naturale. Ma se il giorno dopo vedo dei ragazzi inseguiti dalla polizia come il topo col gatto, è ovvio che apro la porta al topo per metterlo in salvo. Ecco, questa è Genova», taglia corto Paride. Ma prima che io lasci la sua stanza, dalla cui finestra si domina il porto con i container e i «suoi» camalli al lavoro, Paride vuole la garanzia di non essere stato frainteso, come successe ai tempi del G8 con un altro giornalista che lo mise in contrapposizione con i giovani no global: «Sia chiaro che io sto, oggi come sempre, dalla stessa parte della barricata di chi si batte contro le ingiustizie. Le critiche sulla carenza di organizzazione non hanno a niente a che vedere con la condivisione degli obiettivi. Carlo è un ragazzo che ha militato per la libertà, in difesa degli interessi dei più deboli. Un ragazzo generoso, com'è generosa la nostra gioventù».
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Nutriamo la memoria con l'azione
LO. C.
GENOVA
Non dico che sembra un salotto, ma certo è che di lavoro ne hanno fatto tanto i ragazzi del centro sociale Buridda per rendere vivibili, persino attraenti i locali dismessi dalla facoltà di economia dell'università di Genova, sopra piazza Corvetto. E' in questo luogo della socialità giovanile che incontro tre dei tanti ragazzi impegnati a tenere accesa la fiammella della memoria, il ricordo del G8 e di Carlo. I ragazzi per fortuna guardano avanti, magari non ricordano chi disse che il modo migliore per ricordare un compagno caduto è quello di continuare le sue battaglie, ma è questo il senso del loro impegno. Alessio fa il padrone di casa al Buridda (il nome viene da un piatto genovese dove pesci e verdure diverse si mescolano e si migliorano), Manuel coordina i Giovani comunisti e Domenico porta il punto di vista del centro sociale Terra di nessuno. «Genova rimuove il 20 luglio, salvo chi è stato direttamente coinvolto che ne fa una ragione d'esistenza. Il programma di quest'anno - inizia Alessio - è più ricco che negli anni scorsi, le istituzioni sembrano più disponibili ma si stenta a decollare. C'è il rischio che il G8 venga surgelato nel freezer della memoria dell'antifascismo genovese, perdendo la concretezza di quei giorni e della nostra battaglia. Io credo che il ciclo di Genova si sia chiuso e che se ne riapra un altro, a partire da dov'eravamo rimasti prima del 20 luglio 2001. Il movimento è fragile, carsico, ma c'é». «Si è esaurita la spinta propulsiva di Genova ma da ogni angolo escono pezzetti di impegno sociale, gruppi che si propongono, iniziative nel territorio. Metterle insieme non è semplice - interviene Manuel - e come potrebbe esserlo? Tu ti fai in quattro per organizzare la lotta contro i Cpt, riesci anche a intercettare positivamente le istituzioni come è successo a Bari con Vendola e i 14 governatori e poi, solo 24 ore dopo, Fassino applaude Pisanu che dice che i Cpt sono utili nella lotta al terrorismo. E altri a sinistra dicono che quei lager non vanno chiusi ma `umanizzati'».

Un ciclo si è chiuso ma Genova è stato il motore di tante lotte sociali «in tutt'Italia», dal social forum europeo di Firenze alle manifestazioni contro la guerra. Senza dimenticare Scanzano e Melfi, solo per fare due esempi di «autorganizzazione della società civile». «In un paese vicino Genova è tutto pronto per costruire un Cpt: il nostro governatore, Burlando, non può firmare il documento di Bari e poi chiudere gli occhi in casa. Il sindaco - continua Manuel - sembra resistere ma non vorrei che lo facesse solo perché non vuole migranti tra i piedi».

Non è facile il rapporto di questi giovani attivisti con la «Politica»: «è vero che Violante è venuto a Genova a chiedere scusa ma è altrettanto vero che un anno dopo hanno invitato Scajola alla festa dell'Unità», ricordano in coro e aggiungono un'altra perla: il sindaco Pericu che chiese, inutilmente, di costituire il comune parte civile nel processo contro i manifestanti. «Su 25 ragazzi imputati - dice Domenico - 19 sono disobbedienti, quelli di via Tolemaide, quelli del Carlini che hanno sempre agito in modo scoperto, mostrando a tutti scudi e gomma piuma». Domenico insiste su un fatto: poche chiacchiere, adesso bisogna dimostrare concretamente solidarietà e condivisione di una battaglia comune anche «raccogliendo i soldi per continuare a seguire i processi che sono tanti e richiedono uno sforzo politico ed economico. Noi di Terra di nessuno ci siamo assunti l'onere di registrare il processo ai 25».

La vita - e la lotta - continua, passa attraverso la riappropriazione degli spazi urbani - «il Buridda è un esempio positivo» - e prosegue con gli appuntamenti nazionali contro i Cpt, un'agenda lunga come l'autunno che passa per Gradisca e Bari. «Non si vive di ricordi», insiste Domenico, anche se la memoria va nutrita costantemente. E se un anno dopo la morte di Carlo, in una forma del tutto imprevista, 100 mila genovesi sono scesi in piazza vuol dire che non si deve partire dalle fondamenta, «qualcosa si è sedimentato, si tratta di togliere le incrostazioni». Perché le incrostazioni possono portare all'indifferenza.

Affrontiamo un ultimo aspetto con i tre giovani genovesi, piuttosto delicato. Come rispondete alle critiche fraterne di chi (come i camalli che dicono: bisogna sempre riportare tutti a casa sani e salvi) denuncia una mancanza di organizzazione durante i giorni del G8? «Noi eravamo organizzati per quel che potevamo, ma non hai visto cosa c'era dall'altra parte? Noi hai visto l'apparato militare, la violenza gratuita? Come si fa a rispondere a chi ti spara addosso?». Così pensano Alessio, Domenico e Manuel che aggiungono: «Per questo movimento l'unico servizio d'ordine possibile sono le telecamere, i riflettori accesi. Sono l'unica arma che abbiamo per difenderci, per mostrare la verità».

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