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13.07.08

manifesto e liberazione Ritorno a piazza Alimonda.


Diritti a Genova
Ritorno a piazza Alimonda. A denunciare le ingiustizie di oggi, partendo da quella che negò la vita a Carlo
Giuliano Giuliani
Ancora Piazza Alimonda. Ancora Genova. Sì. In sette anni è cambiato poco o nulla. Molto è peggiorato. Per questo è ancora più necessario esserci.
Quelli che erano al Forte San Giuliano e nei luoghi dove si dirigevano la repressione e il disordine pubblico oggi sono di nuovo al governo. Chi la sera stessa emise la sentenza di legittima difesa, oggi occupa la terza carica dello Stato; ha fatto anche il carino con gli Ebrei, come ricorda Moni Ovadia, mai con i Palestinesi, che in quel contesto sono sicuramente i più deboli.
Chi dichiarò dalle scalette di un aereo di aver dato l'ordine di sparare e poi gratificò Marco Biagi dell'epiteto di «rompicoglioni», oggi è di nuovo ministro e pontifica sul nucleare, ignorando le scorie, tanto poi ci pensa la camorra.
Chi fu autore di un lodo teso a rendere non punibile il suo «maestro», oggi occupa la seconda carica dello Stato e ha diretto i lavori per l'approvazione di quel lodo ammodernato.
Chi diresse la repressione, ordinò la Diaz, costrinse suoi sottoposti alla falsa testimonianza e a smentire precedenti dichiarazioni, dopo una breve pausa trascorsa sulla spazzatura della Campania dirige oggi il complesso dei servizi, che spesso si scoprono deviati.
Chi diresse e coprì la «macelleria messicana» è stato promosso e oggi, con l'ennesima legge ad personam, è ancora più sicuro della prescrizione. Naturalmente la cosa vale anche per chi «torturò» (le virgolette non diminuiscono la colpa, ma indicano che in Italia quel reato non è contemplato).
«Scendendo per li rami», cioè per i gradi, persino chi lanciava sassi ai manifestanti e poi accusava un manifestante di avere ucciso Carlo con un sasso, è stato promosso e oggi è questore.
Si sollecita e si esaspera un clima di tensione e paura per estorcere consenso intorno a leggi razziste e liberticide che valgono al paese il biasimo dell'Europa. La militarizzazione del territorio è la traduzione di questa manovra in gran parte mediatica, che si avvale di un'informazione spesso asservita che fa il resto, sorvolando, mentendo. L'allarme lo lanciano non gli estremisti di sinistra, ma i più autorevoli rappresentanti della cultura liberale. Dice Eugenio Scalfari: «Attenti al risveglio. Può essere durissimo. Può essere il risveglio di un paese senza democrazia».
Un tempo c'era chi si lamentava del «lacci e laccioli». Chiamavano così i diritti che faticosamente e a duro prezzo si riusciva a inserire nella legislazione, nei contratti, nel funzionamento della macchina statale. «Lacci e laccioli» che imbrigliavano l'economia e impedivano (questa era già allora la litania del padronato grande e piccolo) alle vele dello sviluppo di alzarsi e gonfiarsi. Qualche sera fa «Primo piano» ci ha fornito una versione allucinante della teoria dei lacci e laccioli. E' stata riproposta l'intervista televisiva del padrone della fabbrica umbra che chiede risarcimento ai familiari dei quattro lavoratori morti il 26 novembre 2006. Si lamentava del fatto che non fossero ancora stati sgomberati i poco gradevoli resti dell'incendio, perché tutta quella roba e il continuo parlarne rovina il mercato e danneggia l'azienda. Oggi i lacci e i laccioli non esistono più, non esistono più neppure le stringhe delle scarpe, e ancora non basta. Uccidono ogni giorno sul lavoro, perché non ci sono protezioni, non si rispettano le regole, non c'è la sicurezza di cui ci si dovrebbe occupare davvero, quella sul lavoro. Ma il padronato non vuole, e il governo della destra di nuovo insediato toglie di mezzo anche i timidi tentativi di introdurre qualche regola.
Occorre produrre, correre, competere: per il mercato, per lo sviluppo. Dire per il profitto, per il padrone non sta bene, sembra che se ne vergognino. «Spara prima la mina, mezz'ora si guadagna, me ne infischio se rischio se di sangue poi si bagna, tu prepara la bara minatore di zolfara», grida una canzone di Michele Straniero e Fausto Amodei, degli anni '60.
Quella canzone la potremo ascoltare alla mostra che il Comitato Piazza Carlo Giuliani allestisce al Munizioniere di Palazzo Ducale dal 15 al 22 luglio. La ascolteremo insieme a tante altre che ci fanno ritrovare la storia e le passioni di quegli anni e ci fanno comprendere meglio quello che accade oggi. Perché è ancora così, anche oggi si deve fare più in fretta. No, è peggio di così. E a morire sono quasi sempre gli ultimi, i più deboli, i più indifesi. Sarà una mostra sul lavoro e su quello che gli sta attorno. Le lotte, i morti, i diritti. Canzoni e filmati e manifesti e fotografie e storie. Già, storie. Che insieme fanno un pezzo di storia.
Noi la storia la cominciamo da Piazza Alimonda, da Carlo, dall'omicidio che lo ha privato dei suoi vent'anni, del diritto a conoscere un pezzo di futuro, con gli altri, per gli altri.
Sono sette anni che ripetiamo che si è trattato di un assassinio. Che persone meschine gli hanno negato persino il diritto a un processo che potesse affermare la verità, che chiarisse gli imbrogli, i sotterfugi, le omissioni, le falsità di cui si sono avvalsi.
L'assassinio di Carlo resta il simbolo della repressione genovese, il punto più alto, ciò che determina poi la Diaz e Bolzaneto e gran parte delle stesse violenze di strada. Alcune anime belle (non parlo della destra) provano a distinguere. In Piazza Alimonda ci sarebbero stati i cattivi, quelli che se la sono andata a cercare. Alla Diaz e a Bolzaneto i bravi, quelli che non c'entravano. E' un modo poco attento a quella che non è più soltanto cronaca. Sono il clima cileno e la vendetta politica della destra che costruiscono la sospensione dei diritti democratici. In Piazza Alimonda Carlo è fra quanti hanno deciso di operare un «reato di resistenza», cioè di rispondere alle cariche violente e ingiustificate di reparti speciali di carabinieri. Lo ha implicitamente riconosciuto il Tribunale che nella sentenza contro 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio ha derubricato l'accusa per la maggior parte di essi. Carlo sarebbe stato condannato in primo grado a tre anni. Invece è stato condannato a morte con esecuzione immediata. Ecco perché ci pare giusto che una mostra sul lavoro, sui suoi diritti, sulle morti sul lavoro e quindi sui diritti negati, incominci da Carlo.
Per questo siamo ancora a Genova, Per questo, il 20 luglio, siamo ancora in Piazza Alimonda.

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