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18.08.07

Unita' Quei giorni «cileni»

http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=68211

Quei giorni «cileni»
Giuliano Giuliani

«L’ambasciata di Germania ha avviato un’indagine sul trattamento
nelle carceri italiane di cittadini tedeschi. Un’indagine che farà
l’ambasciata di Germania dato che è impedita al Parlamento italiano.
Il rifiuto di questa indagine autorizza a sospettare che non si tratta solo
di voler coprire responsabilità e inadeguatezze (...)

(...) ma che atti di violenza compiuti non genericamente dalle forze
dell’ordine, ma da gruppi ristretti e determinati all’interno di
esse, abbiano avuto copertura, avallo politico e forse incoraggiamento».
Violenze con un segno politico «da clima cileno, di tipo fascista. È
difficile trovare una diversa definizione. È come se si fosse lungamente
attesa la possibilità di consumare una vendetta politica». Sono le parole di
Massimo D’Alema, pronunciate il 26 luglio del 2001, dopo che la destra
aveva respinto la richiesta di istituire una commissione parlamentare di
inchiesta sui fatti di Genova.

Poi la stessa destra si rese disponibile per un comitato d’indagine
che frettolosamente, in una decina di sedute dal 7 agosto al 14 settembre
compresa la pausa feriale, si concluse come voleva la maggioranza di allora.
Un comitato del tutto inadeguato, nei tempi e nella conduzione. Basta
ricordare alcuni dettagli: non si sapeva ancora che le molotov alla Diaz le
avevano portate due poliziotti; e il presidente del comitato, il
forzitaliota Donato Bruno, replicò più volte alle obiezioni di parlamentari
del centrosinistra che quella della Diaz era stata «una perquisizione
legittima».

D’altra parte lo aveva sostenuto in una lunga intervista televisiva
anche l’allora capo della polizia De Gennaro, che, oggi, è difficile
sostenere non abbia avuto responsabilità nella gestione del disordine
pubblico.

Basterebbero questi cenni, insomma, per riconfermare la necessità di una
commissione, come quella monocamerale che ha appena iniziato, con molte
difficoltà, il suo iter.

Parole inequivocabili, quelle usate all’epoca da D’Alema, che
mettono in luce le responsabilità politiche quanto quelle della catena di
comando, così come l’intreccio che esiste fra esse.

Oggi il materiale a disposizione è immenso: fotografie, filmati,
testimonianze, registrazioni. Basta volerli osservare, ascoltare e
analizzare con cura e si possono ripercorrere gli avvenimenti: le violenze
di strada, gli attacchi indiscriminati e ingiustificati a dei cortei
autorizzati, l’assassinio di Carlo alle 17 e 27 del 20 luglio, gli
scempi del 21 luglio, la macelleria messicana alla Diaz, le torture di
Bolzaneto.

Noi lo abbiamo fatto con un dvd che raccoglie prevalentemente la
documentazione per i fatti di piazza Alimonda. Un reparto di
un’ottantina di carabinieri compie una manovra insensata e
ingiustificata (l’attacco di fianco al corteo autorizzato delle tute
bianche, sottoposto a cariche altrettanto ingiustificate da oltre due ore),
che si conclude dopo meno di un minuto con una fuga precipitosa, un invito
vero e proprio ai manifestanti a corrergli dietro. Una jeep si appoggia
inspiegabilmente a un cassonetto in mezzo alla strada. A poche decine di
metri ci sono ottanta carabinieri e un centinaio di poliziotti. Nessuno
interviene. Sulla camionetta uno degli occupanti estrae la pistola, mette il
colpo in canna e minaccia di uccidere. Un manifestante lancia un estintore
(poco prima, durante la fuga, i carabinieri ne portano almeno un paio) verso
la camionetta. L’estintore non colpisce gli occupanti (difficile che
possa entrare nella jeep, date le dimensioni del finestrino posteriore), ma
cade sulla gomma di scorta e rotola per terra ad oltre quattro metri di
distanza. Carlo è arrivato tra gli ultimi nei pressi della camionetta. Ha
visto la scena, udito le minacce. Raccoglie l’estintore e cerca di
lanciarlo per disarmare chi minaccia. Legittima difesa. La pistola esplode
due colpi in rapida successione, ad altezza d’uomo (si vede con
precisione la posizione orizzontale della pistola mentre spara). Il primo
attinge Carlo sotto l’occhio sinistro. Il presunto sparatore dichiara
più volte di non avere visto Carlo. Legittima difesa? Nessun dubbio per il
magistrato e per il gip, che si avvalgono anche dell’imbroglio
allestito dai consulenti: sparo per aria e sasso che devia verso il basso il
proiettile, tragica fatalità.

Recentemente la segreteria legale che assiste gli avvocati del Genoa Legal
Forum ha prodotto un dvd che dimostra come gli attacchi al corteo
autorizzato delle tute bianche in via Tolemaide fossero una scelta precisa,
frutto di quella strategia politica, appunto, di cui parlò D’Alema.

Non solo. Appare evidente come le azioni del cosiddetto blocco nero lascino
indifferenti e inattivi i vari reparti, mentre le violente azioni repressive
vengono dirette contro i gruppi pacifisti e inoffensivi. In piazza Manin si
assiste al pestaggio degli attivisti della Rete Lilliput, mentre dai centri
direzionali arrivano via radio ai responsabili di piazza gli inviti a «fare
dei fermati», o addirittura a «fare dei prigionieri». Un’anticipazione
del tenore che ispira molte comunicazioni telefoniche e radio di quelle
giornate fra i vari appartenenti ai reparti operativi. Fino a
quell’indegno «uno a zero per noi» di cui parla al telefono, con un
collega, la poliziotta al centralino della questura.

Dopo la nomina a capo della polizia, in un’intervista rilasciata a un
quotidiano genovese, Manganelli ha annunciato interventi per ristabilire
comportamenti accettabili. Benissimo. Ma preoccupa il chiarimento che ha
accompagnato quell’affermazione: «Lavorerò nel solco tracciato da
Gianni De Gennaro». Non pare proprio l’auspicio migliore. Il sabato 21
luglio, l’ex capo della polizia inviò a Genova il suo vice di allora,
che giunse in città nel pomeriggio ed esautorò tutto lo staff preesistente,
compreso il questore di allora, assumendo il comando esclusivo delle
operazioni. A quell’ora i manifestanti stavano rientrando a casa e la
cosa significativa che accade in tarda serata è proprio la macelleria
messicana alla Diaz.

Occorre sottolineare anche un altro intreccio pericoloso per la stessa
democrazia, quello tra potere e informazione. Ne offrono un esempio le
notizie e i commenti che la televisione diede di quelle giornate: sarebbe
troppo sbrigativo attribuirli alla fretta o alle incertezze. Dalle teche
della Rai è possibile estrarne un florilegio. Vediamoli.

Erano trascorse da qualche secondo le ore 20 del 20 luglio 2001, più di due
ore e mezza dall’omicidio, quindi. Le infermiere del Genoa Social
Forum e i medici del 118 avevano già constatato da più di due ore il foro
d’ingresso del proiettile sotto l’occhio sinistro di Carlo, ma
al Tg1 riferivano ancora di pietre lanciate dai manifestanti e di
investimenti da parte di una camionetta (gli investimenti ci sono stati,
sottovalutati nel corso della perizia autoptica, ma non costituiscono la
causa principale della morte). Eppure lo stesso Tg1, nell'edizione delle 18,
aveva mandato in onda la precisa dichiarazione di un ragazzo: «Gli hanno
sparato, non so se con un lanciarazzi o con un proiettile, è stato colpito
qua (e si tocca l'occhio), io ero a cinque metri, potevano colpire anche
me». Sull'immagine del ragazzo e sulle sue dichiarazioni il Tg3 delle 19
aveva addirittura aperto il servizio di Riccardo Chartroux. Ma
l’ammiraglia dell'informazione pubblica ha ben presente chi comanda
adesso, chi si deve servire. E poi, che diamine, come si fa a considerare
affidabile un ragazzo che si è arrogato il diritto di dimostrare contro il
G8 e tanto sfacciato da portare addirittura un cappuccio, vistosi occhiali
da sub alzati sulla fronte, al collo qualcosa che assomiglia a una kefia!
No, le veline del potere e degli apparati debbono prevalere. Puntualmente,
nello stesso Tg1 delle 20, Antonio Caprarica ne cita una: «Le rappresentanze
delle forze di polizia respingono come una provocazione la tesi del colpo di
pistola». D’altra parte ci aveva provato anche il vicequestore Adriano
Lauro a negare l’evidenza. Recentemente promosso, fra i tanti, Lauro
dirigeva il contingente dei carabinieri che operava in piazza Alimonda ed è
responsabile dell’assurda e ingiustificata manovra del reparto che
portò all’omicidio di Carlo.

Quando nella piazza arriva la telecamera, si esibisce in un goffo
inseguimento dell’unico manifestante presente, accusandolo di aver
ucciso Carlo «con il tuo sasso». Una vera e propria pièce cinematografica
che ha anche l’obiettivo di coprire uno degli atti più vergognosi e
indegni di quelle giornate: un carabiniere aveva spaccato con una pietrata
la fronte di Carlo, che ora giace lì, al centro della piazza.

Torniamo alla tv. Nel telegiornale, con il solito artificio dubitativo, lo
stesso Caprarica iscrive d’ufficio Carlo ai black bloc («… era
spagnolo, appartenente, sembra, alle frange estreme del movimento…»).
Poi, in diretta da una delle sale di Palazzo Doria-Spinola, sede della
prefettura, dà notizia così del disagio dei cittadini genovesi: «… lo
spettacolo che Genova presentava in questi giorni era strabiliante, e
andando un po’ in giro per il centro, parlando con i residenti, quei
pochi che sono rimasti nelle loro case, si avvertiva un senso di
frustrazione, di rabbia, insomma ce l’avevano con i manifestanti
perché capivano che queste iniziative non pacifiche, violente impedivano
alla città di godere di quel palcoscenico internazionale per il quale si era
preparata in tutti questi anni». Al palcoscenico casereccio appartenevano
senz’altro i limoni finti, le facciate delle case di cartapesta, la
litania sulle mutande stese, cioè le questioni che avevano costituito il
principale impegno del presidente del consiglio di allora. Facevano parte
della scenografia anche le inferriate alte cinque metri con le quali era
stato ingabbiato tutto il centro storico di Genova. Il fatto che rendessero
assai difficoltoso, quando non addirittura impossibile, il transito ai
residenti non era notizia significativa.

Fra gli ospiti di un Porta a porta allestito per la bisogna, Bruno Vespa
aveva invitato anche Gianfranco Fini, l’allora vicepresidente del
consiglio. Nella giornata Fini era stato presente in tutti i luoghi nei
quali si dirigeva il disordine pubblico, in particolare al Forte San
Giuliano, sede del comando provinciale e regionale dell’arma dei
carabinieri e centrale operativa, dove era accompagnato da un nugolo di
parlamentari del suo partito e della maggioranza. Fra questi Filippo
Ascierto, deputato di un collegio padovano, maresciallo dei carabinieri e
responsabile di An per la sicurezza (di questo signore vale la pena di
ricordare che ospitava sul suo sito internet un testo che confutava le
camere a gas e attribuiva la morte di alcuni ebrei a un errore di dosaggio
nello spargimento di antiparassitari). Fini non ha dubbi. Il tempo di
pronunciare le solite parole di circostanza sulla perdita di una giovane
vita, poi dètta la sentenza: «Gli occupanti della camionetta erano
sottoposti a linciaggio, la legittima difesa è prevista dal nostro
ordinamento». Sullo schermo dello studio è quasi sempre presente la
fotografia delle Reuters che, scattata con un potente teleobiettivo, ha
ingannato tutti sulla effettiva distanza di Carlo dalla camionetta,
esasperando così la pericolosità del suo gesto difensivo. Osservando la
fotografia, Fini interrompe Vespa e gli suggerisce un’allucinante
precisazione: «Più che un estintore sembra una bombola di gas!». Al che
Vespa, col cappello in mano, aggiunge: «Sì, verosimile!».

Per fare informazione ci vuole dignità. Un esempio lo offre, con il suo
editoriale sull’Unità del 21 luglio, Furio Colombo: «C’è un
ragazzo ucciso in maniera sudamericana, colpito e poi investito da una jeep.
Persino se la tragedia è stata causata da panico e da perdita di controllo
il fatto rimane gravissimo… Alla tragedia della giovane vita perduta
in modo così barbaro, ai feriti, alle distruzioni si aggiunge
l’umiliazione di vivere in un paese allo sbando dove manca la capacità
di prevedere e di intervenire senza violare regole di civiltà».

Pubblicato il: 18.08.07
Modificato il: 18.08.07 alle ore 11.19

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