Home Page

15.09.11

Il Manifesto Dieci anni dopo il G8 di Genova l'ombra lunga del trauma

Per Liguori uno studio condotto da Adriano Zamperini e Marialuisa
Menegatto Quali conseguenze produce nella vittima il «negazionismo della
sofferenza»? Quali effetti produce nella collettività la pretesa di
«voltare pagina»?

Nel decennale delle giornate di Genova, culminate nell'assassinio di
Carlo Giuliani e nella mattanza della scuola Diaz e della caserma Nino
Bixio a Bolzaneto (tra le 250 e le 280 persone arrestate, oltre 600
feriti di cui tre in condizioni molto gravi e uno in coma), vede la luce
un libro Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico. Dopo il G8 di
Genova: il lavoro della memoria e la ricostruzione di relazioni sociali
di Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto (prefazione di Nando dalla
Chiesa, Liguori Editore, pp. 191, euro 19) che consegna nuovi materiali
di studio e importanti strumenti di analisi. Il tema è l'ombra lunga del
trauma, che si proietta nel tempo trasformando, talvolta
irreversibilmente, la vita - i pensieri, la sensibilità, l'identità - di
chi lo ha vissuto. Ogni trauma è un frammento del passato che non passa,
che tende a persistere, informando di sé il presente e «conficcandosi»
nel futuro. Genova, in particolare, ha prodotto un profondo trauma
psicopolitico, non soltanto in chi prese parte alle manifestazioni
contro il G8 e subì le cariche e le torture della polizia, ma anche
nella componente civile della società, non indifferente al diritto e
alle sorti della democrazia italiana.
Il lavoro, svolto sul campo da un'équipe di psicologi sociali, getta
luce sugli effetti durevoli di quella devastante esperienza. Dando la
parola ai testimoni degli eventi (ai manifestanti, non agli agenti,
salvo rarissime eccezioni chiusi tuttora in un significativo silenzio),
gli autori indagano le ferite aperte dalla brutale violenza fisica e
morale compiuta dai poliziotti e dalla sconvolgente rottura delle regole
poste a presidio dell'«ordine democratico». Ferite lontane dal
rimarginarsi a dieci anni di distanza, a dimostrazione del fatto che il
tempo, di per sé, non è una medicina, che il «pensiero della passività»
non è una risorsa per il superamento del dolore, che la rimozione e la
tabuizzazione della violenza non servono alla elaborazione individuale e
collettiva di un lutto.
Leggere questo libro, ascoltare quelle voci dolenti, è rivivere un
incubo. Torna insistente il pensiero che tutti attraversò in quei
giorni. L'Italia come l'Argentina di Videla, come il Cile di Pinochet. O
come l'Italia di via Tasso, delle torture e delle deportazioni. E di
piazza Fontana, dello Stato stragista. «Guardando sotto continuiamo a
vedere quelli che sembrano "squadroni della morte"» racconta un
testimone. «La battaglia di Genova è finita. Forse anche la democrazia
nel nostro Paese» commenta un altro. Non si tratta soltanto del ricordo
della brutalità e del nonsenso. Emerge soprattutto lo stupore per un
inconcepibile rovesciamento delle parti.
La prima questione che le testimonianze pongono è precisamente questa:
che cosa rivela la mutazione genetica (sempre possibile) di apparati di
potere pensati come strutture di protezione e rivelatisi alla prova dei
fatti vettori di distruzione e di terrore? L'esperienza del terrorismo
di Stato causa un radicale spaesamento e il crollo di aspettative
cruciali. Comporta la scoperta del cuore di tenebra immanente alla
relazione di potere. O, se si preferisce, la percezione della
pervasività della guerra sotto la superficie fragile e illusoria della
relazione civile. Come racconta un altro testimone, a Genova tutto un
mondo si capovolse, lasciando irrompere la natura ferina (disumana e
deumanizzante) della sovranità.
Disincanto, quindi, ieri. Ma anche silenzio, fuga, reticenza e omertà
oggi. Faticano a ricordare e a parlare le vittime della violenza,
difendendosi col diniego dal dolore del ricordo. Rifiutano di parlare
gli autori (a vario titolo) delle violenze, difendendo il proprio ruolo
con l'omertà e il disimpegno morale. Qui si pone l'altra questione:
quali conseguenze provoca nella vittima il «negazionismo della
sofferenza» e, soprattutto, quali effetti produce nella collettività la
mancata assunzione di responsabilità da parte dei colpevoli, la pretesa
di «voltare pagina» imponendo un impossibile o distruttivo black out
della memoria?
La memoria collettiva è un'attività in virtù della quale il passato si
trasforma, opera nel presente, costruisce un futuro condiviso: dà vita a
una «comunità di memoria» figlia del mutamento sociale prodotto dal
lavoro del ricordo. Quando una società si ritrae, risparmiando a se
stessa questa fatica, la violenza compiuta e subita resta come sospesa,
cristallizzata in un presente senza tempo. E perdura. Chi allora subì
torture, percosse, insulti e umiliazioni inaudite dai «tutori
dell'ordine» reca ancora oggi il peso di un «ostracismo sociale».
Le testimonianze di chi visse le violenze cilene di Genova fotografano
questa impasse, che impedisce il superamento del trauma, rinnova il
dolore, incide linee di frattura nel corpo della società. Per questo
Carlo Giuliani non è, ancora oggi, «un morto di tutti». Per questo
ancora oggi migliaia di cittadini di questo paese tremano al cospetto di
divise e di anfibi. Per questo consigliamo la lettura di questo libro a
tutti, e soprattutto a quei rappresentanti del popolo sovrano - deputati
del centrodestra e dei partiti di Mastella e Di Pietro - che
nell'ottobre del 2007, Prodi governante, impedirono l'istituzione di una
Commissione parlamentare sui fatti di Genova. Scegliere l'omertà è
possibile, pretendere che il silenzio riconcili è un'illusione, un
errore e una colpa.

.
.