Home Page

09.11.06

Linus: promozioni indecenti

Promosso dirigente superiore "per meriti straordinari". Per un poliziotto già vicino all'apice della carriera dev'essere una grande soddisfazione. Gilberto Caldarozzi, 49 anni, direttore del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di stato, ha provato quest'emozione. Ha ottenuto il riconoscimento, coi colleghi Giuseppe Gualtieri e Renato Cortese, per il ruolo rivestito in una delle maggiori operazioni di polizia degli ultimi anni: l'arresto di Bernardo Provenzano, detto Zu Binu. Caldarozzi, del resto, non è nuovo a imprese speciali. Nel suo curriculum figurano "colpi" importanti. Il più noto, o almeno quello che ha meritato rinnovate attenzioni grazie alla partecipazione dell'ex sequestrato a un reality show, è la liberazione del piccolo Augusto De Megni, rapito dall'anonima sarda nel 1991. Ma è proprio nella caccia ai latitanti di Cosa Nostra che il neo dirigente superiore si è fatto onore: all'inizio degli anni Novanta ha partecipato in posizioni di rilievo alla cattura di due boss di primo piano come Giuseppe "Piddu" Madonia e Nitto Santapaola. Insomma, una carriera importante, evidenziata dai media con la dovuta enfasi nelle ore successive all'arresto dell'anziano capo di Cosa Nostra, scoperto in una cascina semi diroccata nelle campagne di Corleone dopo decenni di vane ricerche.

Gilberto Caldarozzi ha dunque ottenuto onori meritati, eppure figura anche lui fra quei "dirigenti, questori, vice questori" che fecero indignare Salvo Montalbano, forse il poliziotto più popolare d'Italia, in uno dei dei libri di Andrea Camilleri, "Il giro di boa", uscito nel 2003. Nel romanzo l'ispettore ha una reazione furiosa, e una crisi di coscienza, alla notizia dei rinvii a giudizio di alcuni importanti dirigenti di polizia per i fatti della scuola Diaz, durante il G8 di Genova nel 2001. Montalbano si sente tradito e pensa alle dimissioni. "I suoi compagni e colleghi - si legge nel Giro di boa - avevano compiuto un illegale atto di violenza alla scordatina, una specie di vendetta fatta a friddo e per di più fabbricando prove false. Cose che facevano tornare a mente episodi seppelluti della polizia fascista o di quella di Scelba". Gilberto Caldarozzi ha questa macchia nella sua carriera: è fra i ventinove imputati per i fatti della scuola Diaz. Pochi, nelle cronache di giornali, radio e tv, hanno citato questo episodio. Nessuno ha soffermato l'attenzione sulla singolare posizione del "dirigente superiore", premiato ed elogiato dal potere politico, nelle vesti del ministro dell'interno che ha firmato il decreto di promozione, e nel frattempo processato dalla magistratura, che lo accusa di falso, calunnia e abuso d'ufficio nell'ambito di un procedimento che riguarda una delle pagine più nere nella storia della polizia italiana. Si è preferito sorvolare, per lasciarsi andare ai consueti soffietti elogiativi.

Camilleri, col suo impasto linguistico colorito dal dialetto, nel Giro di boa descrive in verità un passaggio molto poco italiano: il senso collettivo dell'onore, l'attaccamento alla credibilità della divisa, la consapevolezza di appartenere a un corpo che dev'essere al di sopra di ogni sospetto, espressi attraverso la figura del commissario Montalbano, non appartengono all'etica civile di questo paese. L'Italia, vista da questa particolare angolatura, con lo sguardo ai cinque anni trascorsi dal G8 genovese, e concentrando l'attenzione sul microcosmo della polizia di stato, appare ipocrita, meschina, soggiogata dalle oligarchie.
Basta guardare alla sorte dei maggiori dirigenti rinviati a giudizio per i fatti Genova. Dal 2001 in poi, nonostante i processi e le pessime figure di fronte ai magistrati e all'opinione pubblica, hanno migliorato la propria condizione. Sono stati promossi, premiati, riveriti. In altri paesi, per fatti come quelli accaduti alla Diaz, tanto per citare il caso più clamoroso (ma a Bolzaneto sono accadute cose altrettanto indegne di un paese civile), le teste dei dirigenti sotto inchiesta sarebbero "saltate" immediatamente. Il ministro avrebbe provveduto a sospenderli dagli incarichi, in attesa di chiarimenti interni e davanti al tribunale. Meglio ancora, funzionari con lo spessore etico di un Montalbano avrebbero volontariamente fatto un passo indietro, in attesa del giudizio, per non gravare sull'onore e la credibilità dell'intero corpo. In Italia no. Da noi Gilberto Caldarozzi, all'epoca dei fatti vice direttore del Servizio centrale operativo (Sco) di polizia, è stato promosso direttore, ben prima dell'impresa a Corleone. Il suo superiore di allora, Francesco Gratteri, è stato nominato pochi mesi fa questore di Bari, senza alcuna compromissione delle sue future ambizioni professionali. Un altro imputato, Giovanni Luperi, nel 2001 vice capo dell'Ucigos, è stato indicato per un ruolo di grandi responsabilità a livello europeo. Sono stati promossi anche Spartaco Mortola, già capo della Digos di Genova, divenuto vice questore di Alessandria, e Filippo Ferri, figlio dell'ex ministro Enrico, passato dalla squadra mobile della Spezia alla guida di quella di Firenze: entrambi sono imputati per i fatti della Diaz.

Sono passati di grado perfino Vincenzo Canterini e Alessandro Perugini. Il primo è il dirigente che la notte del 21 luglio 2001 guidò l'irruzione alla scuola Diaz, alla testa del settimo reparto mobile di Roma. Perugini è l'ex vice capo della Digos genovese. Molti lo ricorderanno in uno dei filmati più noti – e più scioccanti – del G8: è il funzionario con la maglietta gialla e gli occhiali da sole alzati sopra la fronte che tenta di colpire con un calcio alla testa un ragazzo inginocchiato sull'asfalto, circondato da un gruppo di agenti e sanguinante al volto per i colpi ricevuti. Perugini è imputato (con sei colleghi) per questo episodio e anche per i fatti di Bolzaneto: qui ci sono 45 agenti alla sbarra con vari capi d'imputazione per i maltrattamenti inflitti ai detenuti.

Nel giugno 2005 il dottor Canterini e il dottor Perugini sono stati promossi, rispettivamente, questore e vice questore. Il loro caso è l'unico ad aver sollevato pubblico sdegno. Il senatore Gigi Malabarba, uno che la notte della Diaz, a mattanza in corso, era fuori dai cancelli a tentare (invano) di frenare gli agenti, fu promotore di un'indignata mozione sottoscritta da oltre cinquanta senatori del centrosinistra. La protesta, naturalmente, non sortì alcun effetto, ma almeno servì a richiamare l'attenzione sullo scempio che si faceva del prestigio e della credibilità della polizia di stato.

Per gli altri dirigenti – definiti una volta “i papaveroni di Roma” dallo stesso Canterini – non è accaduto nemmeno questo: niente mozioni né interrogazioni. Niente di niente. E dire che è proprio il comportamento dei dirigenti, non solo durante il blitz alla Diaz ma anche nel periodo dell'inchiesta giudiziaria, ciò che sconcerta e indigna di più. Non potendo negare i fatti – un pestaggio ingiustificato, 93 arresti eseguiti sulla base di prove costruite ad arte e una lunga serie di menzogne e falsificazioni – i nostri dirigenti hanno scelto una strategia difensiva legittima ma assai poco... marziale. Invece di dichiararsi comunque responsabili, almeno sul piano morale e professionale, di quanto avvenuto sotto i propri occhi, hanno infatti negato – in questo caso sì, davvero all'italiana - di avere ricoperto ruoli di comando, nonostante i gradi e pur avendo partecipato personalmente all'operazione. I pubblici ministeri che hanno condotto l'inchiesta, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, scrivono così nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio: “Le indagini hanno consentito di confermare l'effettività di questa linea di comando instaurata in via di fatto, anche se essa è stata negata a più riprese dagli interessati. Neppure un funazionario ha, infatti, ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell'operazione ed in forza dell'attivarsi di tale linea”.
Nessuno, naturalmente, crede che una struttura gerarchizzata come la polizia di stato abbia applicato il principio di anarchia per gestire un'operazione così importante da coinvolgere “i papaveroni di Roma” e da richiamare appositamente a Genova nientemeno che il capo dell'ufficio stampa nazionale, Roberto Sgalla. Fu lo stesso Sgalla, in un'improvvisata conferenza stampa in piena notte davanti alla Diaz, mentre decine di persone ferite e sanguinanti venivano portate all'ospedale, a parlare per primo di “ferite pregresse”. Zucca e Cardona Albini nella loro memoria esprimono anche un pesante giudizio sulle ragioni e gli esiti del blitz: “Lo scenario emerso non è più adeguatamente rappresentato da comportamenti che esprimono scadente professionalità, approssimazione, negligenze, tutti costituenti una obiettiva catena di 'errori', che per la loro concomitanza e convergenza appaiono sempre meno credibili, ma dall'ipotesi di una consapevole e deliberata azione che, avendo di mira un apparente obiettivo di giustizia, non ha esitato a percorrere ogni mezzo per raggiungere lo scopo sostanziale, dimenticando che la giustizia è risultato che può seguire soltanto l'osservanza delle regole”.

Di tutto questo si discute dal novembre scorso in tribunale a Genova. In questi mesi sono sfilati davanti ai giudici decine di testimoni. Hanno descritto nel dettaglio violenze, soprusi, umiliazioni. Altrettanto sta avvenendo nel procedimento per i fatti di Bolzaneto. Chi ha seguito le udienze, ignorate dai grandi media, è rimasto scosso. Calderozzi, Gratteri, Perugini e gli altri però non c'erano. Non hanno finora sentito di dover onorare con la loro presenza i lavori di un tribunale dello stato. Arriveranno quando dovranno rispondere alle domande dei pubblici ministeri. Porteranno in aula tutto il peso dei loro delicati incarichi, e gli encomi, i premi, i riconoscimenti ricevuti. Fuori, in parlamento, su qualche giornale, qualcuno dirà che non si può processare la polizia. Magari i dirigenti imputati saranno tutti assolti, con o senza l'intervento della prescrizione, ma noi sappiamo già che il commissario Salvo Montalbano non si sarebbe comportato come loro.

Lorenzo Guadagnucci

.
.